Articolo di: Anna Mammì
Tra le funzioni cognitive superiori peculiari della specie umana, la memoria è forse la più affascinante, misteriosa ed intrigante.
Esistono dei meccanismi cerebrali specifici responsabili della registrazione di informazioni nuove e del recupero di quelle già immagazzinate? Se si, siamo capaci di modificarli a nostro piacimento con speciali allenamenti o, magari, con sostanze neurochimiche, al fine di ottenere una “memoria da elefante”?
Lo studio della Memoria umana è in costante evoluzione, immenso è il fervore scientifico in questo ambito ma, paradossalmente, dietro ogni porta aperta ci si ritrova sempre davanti a una stanza buia, di cui non si sa nulla, e le frontiere delle neuroscienze si allontanano sempre più.
Gli ultimi sviluppi in questo ambito rivelano un legame imprescindibile tra neurobiologia e genetica, il campo d’indagine privilegiato si riferisce a quei “cambiamenti ereditabili nell’espressione genica che non sono causati da cambiamenti nella sequenza del DNA” (Waterland & Michels, 2007), ciò che viene definito col termine Epigenetica.
Tali modificazioni del DNA sono dovute a particolari processi biochimici dettati dall’interazione dell’individuo con l’ambiente; uno di tali meccanismi è la metilazione del DNA che consiste nella sostituzione di atomi di idrogeno con gruppi metile.
Il grado di metilazione del DNA può cambiare nel corso della vita e rappresenta il mezzo attraverso cui l’ambiente può plasmare il genoma così da influenzare il fenotipo di un individuo, definito come “l’insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un organismo vivente: la sua morfologia, il suo sviluppo, le sue proprietà biochimiche e fisiologiche comprensive del comportamento” (Wikipedia).
Nel 2009 i ricercatori della “Univerity of Alabama” di Birmingham pubblicano su “Neuron” uno studio effettuato su topi che dimostra come la memoria a lungo termine sia garantita da tali processi di metilazione del DNA.
Ma allora cosa succede ai nostri neuroni quando apprendiamo nuove informazioni dall’ambiente? La rivoluzione epigenetica ha fatto si che l’attenzione dei neuroscienziati si spostasse dalle macroscopiche modificazioni a livello del SNC direttamente alle cause insite nel DNA, cioè a quelle informazioni geniche che vengono ereditate e poi opportunamente rieditate dall’ambiente.
I processi di memoria possono essere influenzati da comportamenti umani, quali speciali training mnemonici, o da sostanze neurochimiche che agiscono direttamente sul DNA tramite i processi di metilazione?
La risposta alla prima domanda si conosce già da almeno 2000 anni. Nell’antica Roma gli oratori erano soliti memorizzare lunghi discorsi associando i luoghi di un percorso familiare alle varie parti del discorso, utilizzando una mnemotecnica definita “Metodo dei loci”. Cicerone scriveva così nel suo De Oratore: “[…] Simonide, pertanto, a quanti esercitino questa facoltà dello spirito, consiglia di fissare nel cervello dei luoghi e di disporvi quindi le immagini delle cose che vogliono ricordare. Con questo sistema l’ordine dei luoghi conserverà l’ordine delle idee, le immagini delle cose richiameranno le cose stesse, i luoghi fungeranno da tavolette per scriverci sopra e le immagini serviranno da lettere con cui scrivere” (M. T. Cicerone, De oratore).
Le mnemotecniche infatti sfruttano la naturale capacità umana di ricordare con più efficacia le informazioni verbali quando sono associate ad informazioni di natura visivo-rappresentazionale, quindi immagini, luoghi o storie.
D’altra parte l’identificazione di sostanze neurochimiche, naturali o artificiali, che agirebbero direttamente sulle capacità di apprendimento umane, è ad oggi una grande sfida della medicina, e risulterebbe nella cura di neuropatologie quali morbo di Alzheimer, demenza senile, sindrome di Korsakoff, amnesia, sindrome di Cushing, sindrome di Susac e tutte le patologie che comportano danni alle funzioni mnestiche.
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