Accettare il sintomo è il primo passo

Dott.ssa Annalisa Barbier

 

L’attitudine all’accettazione del sintomo (acceptance) e la disponibilità ad accoglierlo senza combatterlo, rappresentano gli elementi principali in grado di migliorare la qualità della vita in molte forme di sofferenza e disagio psicologico e fisico.

Mi rendo conto che un’affermazione del genere suoni decisamente provocatoria e, nel migliore dei casi, fastidiosa alle orecchie di tutte le persone che si trovano a convivere con un disagio o una sofferenza psicologica, ma di fatto questa attitudine rappresenta concretamente la migliore strada percorribile per far sì che la propria vita non sia governata dal sintomo, e dal disagio e la sofferenza che esso provoca.

Cerchiamo di capire meglio che cosa significa disponibilità all’ “accettazione” e perché può realmente aiutarci a vivere meglio: innanzitutto, è bene comprendere che con il termine “accettare” voglio qui intendere un’attitudine all’accoglimento non giudicante ed amorevole, non una forma di passiva sopportazione caratterizzata da rabbia, senso di impotenza e desiderio di liberarsi dall’oggetto del disagio. Accettazione e disponibilità in questa veste sono esattamente l’opposto del controllo: esse indicano la capacità di “prendere le cose come sono”, lasciando emergere anche i sentimenti negativi ed accogliendoli come una parte di sé, come un fenomeno fisiologico e non come un nemico da combattere, controllare e allontanare.

Essere disponibili all’accettazione significa lasciare che un’immagine o un ricordo vengano ricordati ed osservati dal di fuori, come se guardassimo una scena esterna. Significa percepire e sentire un’emozione o una sensazione lasciandole fluire, senza combatterle né sforzarci per tenerle lontane.

Si tratta di un atteggiamento controintuitivo e davvero rivoluzionario: infatti, la risposta automatica che mettiamo in atto di fronte ad una sensazione dolorosa (sia essa un ricordo, un pensiero o un’emozione come l’ansia o la paura) è quella di scacciarla, allontanarla, combatterla, evitarla a tutti i costi. Insomma consiste nell’EVITARE TUTTO CIO’ CHE AD ESSA CI PUO’ RICONDURRE PROVOCANDO DOLORE PSICOLOGICO.

Questo comportamento viene definito comportamento di EVITAMENTO e riguarda sia l’evitamento di oggetti, situazioni e persone che l’evitamento di pensieri, ricordi ed associazioni che sono in grado di rievocare in noi una risposta di disagio, paura o dolore. Il punto è, però, che se nell’immediato l’evitamento è in grado di garantire un certo sollievo poiché allontana la causa della sofferenza, dall’altro non ci dà la possibilità di affrontarla e di viverla questa sofferenza, riducendone l’impatto e la pericolosità percepita, privandoci della possibilità di imparare a gestirla invece di sfuggirla, e limitando sempre di più le nostre attività.

E, come tutte le cose che rifuggiamo e che temiamo di affrontare, essa si ingigantirà fino a diventare sempre meno sostenibile e sempre più generalizzata.

Faccio un esempio facilmente comprensibile: se si soffre di una fobia verso i cani, si cercherà di evitare a tutti i costi la vicinanza di un cane. Poi, si tenderà ad evitare anche la vista di un cane sebbene sia distante, Quindi si passerà probabilmente ad evitare anche le immagini (mentali o concrete) di cani o le persone che ci fanno pensare ad un cane, in un processo virtualmente senza fine,  destinato ad allargarsi a macchia d’olio fino ad includere molti elementi che con il cane hanno davvero poco a che fare ma che, in qualche maniera, ce ne ricordano l’immagine o l’essenza. Si finirà con il chiudersi in una sorta di gabbia sempre più stretta, limitando in maniera più o meno drastica le attività che ci farebbe piacere svolgere o le persone che ci farebbe piacere frequentare, e che poi nel tempo, verranno a mancarci.

Ricapitolando quindi, l’evitamento psicologico e comportamentale, nel lungo termine non rappresenta una valida e duratura soluzione alla sofferenza psicologica, ma anzi ne ingigantisce l’impatto disfunzionale.

Se invece di EVITARE – come peraltro viene istintivo fare – cercassimo di SENTIRE, PERCEPIRE ed ACCETTARE di provare anche emozioni e sensazioni sgradevoli, potremmo alleggerire il carico facendo sì che il disagio psicologico non finisca con il chiudere la nostra vita in una gabbia.

In pratica l’obiettivo della disponibilità e dell’accettazione non è quello di eliminare la sofferenza (essa fa parte della vita), ma sta nel sentire tutte le sensazioni che emergono – soprattutto le sensazioni sgradevoli e spiacevoli - in modo completo e non giudicante, perché la vita è fatta anche di emozioni e sensazioni brutte. In questo modo potremmo vivere una vita più aperta e completa non perché abbiamo eliminato la sofferenza psicologica (Hillman a questo proposito diceva che nel caso del dolore psicologico il segreto è starci dentro, poi starci insieme e quindi imparare a viverci insieme), ma perché abbiamo imparato che essa fa parte della vita, che in un certo senso ci caratterizza come un’impronta digitale (“il proprio minerale”, lo definiva Hillman) perché ognuno ha i suoi punti di vulnerabilità specifici legati alla propria storia, e che possiamo vivere una vita completa e soddisfacente anche in presenza e nonostante tale dolore.

 Inoltre, la letteratura scientifica ha dimostrato più volte come l’evitamento esperienziale NON RIDUCA IL DISAGIO NE’ IL DOLORE.

Nel caso di disturbi d’ansia ad esempio, praticare l’evitamento o tentare di controlla l’ansia induce un aumento progressivo dei livelli di ansia ed attivazione fisiologica (Karekla, Forsyth e Kelly, 2004; Feldner et al., 2003), ed una maggiore presenza di comportamenti di evitamento correla significativamente con elevati livelli di inefficienza e preoccupazione legate all’ansia (Roemer et al., 2005; Mennin et al., 2002. Nel caso di dolore fisico e danno funzionale legato a patologie neurologiche o infartuali, il fattore maggiormente predittivo del successo riabilitativo NON E’ la gravità della patologia quanto piuttosto l’atteggiamento accettante e disponibile del paziente a prendersi cura del problema, senza negarlo o combatterlo (Krause, 1992; Riegal, 1993). Nel caso della depressione invece, Hayes e Stroshal (2004) hanno dimostrato come la mancanza di accettazione dei sintomi psicologici sia in grado di influire negativamente sull’intensità dei sintomi, rendendoli più intensi o invalidanti.

 

E’ quindi molto importante, di fronte alla sofferenza psicologica ma anche fisica, imparare a capovolgere l’approccio “terapeutico” dall’evitamento, combattimento e negazione del sintomo alla sua accettazione non giudicante, conoscenza e comprensione. Si tratta certamente di un approccio inizialmente più difficile da comprendere e da attuare ma che è in grado, nel medio e lungo termine, di garantire risultati migliori rispetto all’evitamento esperienziale e soprattutto di permettere di vivere comunque una vita gratificante e piena.

 

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