Scritto da: dott.ssa Annalisa Barbier
Viviamo nell’epoca delle “passioni tristi”, come scrivevano M. Benasayag e G. Schmit; un’epoca in cui vediamo aumentare il disagio psichico nelle sue diverse manifestazioni soprattutto tra i giovani, eppure restiamo incapaci di sostituire gli attuali modelli individualistico-prestazionali con modelli socio culturali più capaci di rispecchiare e rispettare la natura degli esseri umani, i loro tempi, il loro profondo bisogno di reciprocità, affidamento, riconoscimento, interconnessione, stabilità, contatto… La rinuncia al ruolo, il narcisismo sfrenato che ha portato con sé una deriva individualista, la disperata ricerca della felicità ideale, sono gli ingredienti alla base della evidente crisi che vivono le relazioni interpersonali e della diffusa fragilità psichica che caratterizza questi tempi.
Mai come oggi le relazioni interpersonali sono diventate difficili, complesse, volatili, veloci. Siamo spinti ad intessere rapporti innumerevoli quanto superficiali, mediati e facilitati in questo consumismo relazionale dalla presenza dei social, che hanno ridefinito le regole ed i parametri di riferimento nella relazione con l’altro.
Si è venuto strutturando un modo di consumare le relazioni che non permette una reale gratificazione, né il soddisfacimento dei profondi bisogni di intimità, reciprocità e stabilità che fanno naturalmente parte dell’uomo. Questa superficialità relazionale è assurta a valore ed è co-responsabile del senso di fragilità e solitudine e dell’analfabetismo emotivo di cui sempre più persone soffrono.
Il disconoscimento dei reali bisogni dell’individuo a favore di un attitudine relazionale consumistica, insieme con i dettami narcisistici di onnipotenza, perfezione, bellezza, ambizione e negazione dell’altro, hanno prodotto un individuo nuovo: ambiguo e confuso, triste, fragile, solo, incapace di sopportare il disagio né alcuna sofferenza, incapace di gestire la frustrazione, incapace di intimità, debole ed estraneo a se stesso. Terribilmente bisognoso di una maschera.
In un’epoca che ormai ha sdoganato come realistica l’aspettativa di approvazione universale e di artificiosa amplificazione del sé, non solamente la chirurgia estetica ha trovato il suo naturale ambito di espressione ma un altro inquietante fenomeno sta sempre più portandosi alla ribalta: la psichiatria cosmetica.
Con il termine “psichiatria cosmetica” si indica l’utilizzo NON TERAPEUTICO di psicofarmaci in persone sane, finalizzato a potenziarne le prestazioni cognitive, emotive e comportamentali. Si tratta dunque del crescente ricorso all’uso di farmaci - altrimenti dedicati al trattamento di condizioni patologiche - con finalità UNICAMENTE aumentative delle proprie prestazioni. Una sorta di make up psicologico, che permetta di essere sempre più attivi, sempre più efficienti, sempre allegri e di buonumore, vigili, forti, capaci quindi desiderabili.
Ci si vuole rifare l’umore così come ci si rifà un naso imperfetto: prede del vuoto interiore, della paura e del senso di solitudine, ci si sente tristi. Si vuole rallentare, fermarsi forse. Si percepisce lontano il bisogno di profondità e riflessione. Ma si tratta di aspetti che la società ha insegnato ad allontanare e rinnegare; spinti e motivati dallo stesso incalzante desiderio di riconoscimento sociale e dall’illusione di perfezione che spesso accompagnano la chirurgia estetica, ci si rivolge ai farmaci con troppa leggerezza, pur di restare “brillanti”, allegri, efficienti.
Negli Stati Uniti si moltiplicano i casi di persone che ricorrono alla psichiatria cosmetica per fornire prestazioni migliori a lavoro, superare brillantemente gli esami all’università, esaltare il tono dell’umore ed esorcizzare lo spettro della tristezza, per potersi garantire una vita sociale brillante e perennemente sulla cresta dell’onda.
Ma l’obiettivo della medicina è quello di ridurre la sofferenza curando gli ammalati, non quello di trasformare le persone in superuomini super-felici capaci di fornire superprestazioni.
Si tratta di una questione di grande rilevanza sociale ed etica, poiché impone una riflessione: quale prezzo siamo ancora disposti a pagare per mantenere in piedi l’illusione di felicità e onnipotenza che ci chiude gli occhi? E a cosa possiamo e dobbiamo rinunciare per poter scendere di nuovo dentro di noi, per riappropriarci di quella integrità e di quella unicità che solo l’accettazione del limite può restituirci?